Revue du Mauss permanente (https://journaldumauss.net)

Marco Aime

Da Mauss al MAUSS

Texte publié le 30 mai 2014

Nous reproduisons ici la préface à la réédition de l’Essai sur le don en italien rédigée en 2004 par notre ami l’anthropologue Marco Aime. Avec la préface à la traduction en hébreu d’Ilanba Silber et la préface à la traduction en chinois par A. Caillé, voilà une troisième préface Maussienne à Mauss.La première, chronologiquement. A.C.

Un immaginario colonizzato

I doni, da noi, si fanno e si ricevono, generalmente a Natale o in occasioni stabilite, come compleanni o eventi particolari. Insomma non è considerato « normale » fare regali senza un motivo che lo giustifichi. Il dono è un’eccezione alla regola, dove la regola è invece tenere le proprie cose per sé e ottenerne altre tramite l’acquisto o lo scambio esplicito.

Al contrario, l’antropologia, in particolare quella classica, ci ha offerto invece molti esempi di società presso le quali il dono costituisce uno degli elementi fondanti delle società stesse. Lo studio delle culture « altre » è stato spesso caratterizzato da quelli che potremmo chiamare « marchi d’area ». L’Africa, per esempio, è il continente della parentela. E’ sufficiente scorrere le monografie classiche di E. E. Evans-Pritchard, Darryl Forde, Meyer Fortes, John Middleton e di molti altri antropologi britannici africanisti per notare come lo studio delle strutture parentali e delle loro dinamiche occupi un ruolo fondamentale. [1] La parentela è stata per gli africanisti una sorta di ossessione, ma anche una forca caudina sotto la quale era inevitabile dover transitare. Oggi che in antropologia l’oggettività non è più considerata possibile, è difficile dire quanto sia stata la parentela a determinare l’orientamento degli studi africanisti oppure quanto siano stati proprio questi studi a rendere la parentela così importante. Il gioco degli specchi si fa complesso.

Il « marchio » del dono viene invece assegnato all’Oceania. Nello scrivere il suo Saggio sul dono, Marcel Mauss venne fortemente influenzato dagli studi oceanistici e in particolare da quelli di Bronislaw Malinowski sullo scambio kula. [2] Se si eccettuano le citazioni relative alla pratica del potlatch presso gli indiani Kwakiutl della costa nord-occidentale del Canada, la maggior parte degli esempi sui quali si fonda la sua teoria sono tratti da studi condotti nelle isole del Pacifico.

« Nel sistema melanesiano per essere un uomo prestigioso bisogna “avere”, certo, come dappertutto. Il prestigio sta nel donare, donare molto e donare dappertutto. Il contrario del mondo capitalista ! » sostiene in un suo discorso il leader kanak Jean Marie Tjibaou [3], mettendo in evidenza un tratto importante della cultura del suo popolo, condiviso da molte altre culture del Pacifico. Donare è importante, ma perché ? Per instaurare relazioni. Lo aveva già rilevato Maurice Leenhardt, secondo il quale i Kanak si riconoscono solo grazie alle relazioni che intrattengono con gli altri. [4]

In una raffinata analisi dell’opera di Leenhardt, Michel Naepels pone in evidenza come dagli studi sulla lingua kanak emerga una sorta di « io » timido, debole che segnala l’importanza della partecipazione e induce a un sentimento di identificazione con il mondo, la collettività. [5] Ciò che colpisce è la prevalenza della relazione sull’individuo, un primato della società che Leenhardt sintetizza con l’espressione « uno è una frazione di due ». [6] Sotto questo profilo il dono acquisisce una posizione di rilievo in molte società dell’Oceania, come è confermato da molte monografie etnografiche.

Anche in questo caso non è facile dire in che misura le isole del Pacifico siano entità che appartengono al nostro immaginario esotico più spinto o quanto tale immaginario sia stato costruito anche attraverso la diffusione di studi di carattere etnografico. E’ però vero che l’antropologia, soprattutto quella classica, mettendo l’accento sulle differenze ha spesso indotto a creare delle dicotomie che contrapponendo « noi » a « loro », attribuivano a ciascuna di queste categorie caratteristiche estranee all’altra. [7] Così il confronto è stato reso più facile : esistono ancora società che hanno preservato la loro armonia tradizionale, presso le quali lo scambio di doni rappresenta la quotidianità. Queste popolazioni ci vengono spesso dipinte come fortemente solidali. Tutto il contrario che da noi, dove, dopo Adam Smith, l’economia e alcune correnti della filosofia concordano nell’affermare che, affinché la società funzioni bene ciascuno deve perseguire il proprio interesse egoistico. Tanto è vero che nella società moderna, si tende talvolta a considerare il dono come un’ipocrisia. [8]

L’opposizione tra un’idea di società basata sulla solidarietà e quella di un mondo dove ognuno, per natura, persegue solo i propri interessi non solo ha diviso il pensiero degli studiosi, ma ha anche dato vita a una sorta di dicotomia geografica. Se c’è qualcuno che « dona » per creare le basi di una convivenza non siamo certo noi occidentali, razionali e utilitaristi. Infatti, l’utilitarismo dominante nel pensiero occidentale e nelle scienze sociali, come ha dimostrato Alain Caillé [9], ha relegato il dono in un dominio etnografico, congelandolo in ambiti esotici e impedendo quindi una sua ricontestualizzazione nel mondo occidentale e la sua riattualizzazione in epoca moderna. [10]

Grazie alla forte tendenza alla dicotomizzazione che ha segnato la ragione etnologica del passato, si è pertanto venuta a formare una netta distinzione tra noi utilitaristi, ossessionati dal guadagno, e gli altri meno attenti al profitto individuale, più disposti a donare in quanto caratterizzati da un’economia incastonata nella società, embedded per dirla con le parole di Karl Polanyi. Se da noi gli affari economici risultano spesso essere pensati come fatti esterni alla moralità, presso molte popolazioni « primitive » l’economia è strettamente connessa ai legami parentali, alla religione, alle gerarchie sociali. [11]

Si tratta di una distinzione che talvolta, soprattutto nel pensare comune, assume tratti evoluzionisti. Gli « altri » non sono solo gli esotici, ma anche comunità del nostro passato. Così, non senza una certa dose di nostalgia, siamo spesso propensi a pensare a un mondo perduto dove la gente era più generosa, non come ora che siamo diventati tutti utilitaristi.

Ma è davvero così ?

Prendiamo il caso del mitico Nord-est di casa nostra, osannato e celebrato quale esempio del boom della piccola industria, della cultura del lavoro, dell’ideologia capitalista convertita a livello familiare. In questa terra, che vanta i redditi medi più alti d’Italia, dice Paolo Rumiz, ci si attenderebbe di incontrare gente ossessionata dal lavoro e dal guadagno la quale passa il tempo a parlare di schei. In parte è senz’altro così, ma proprio qui, nella patria della famiglia trasformata in azienda, si riscontra la più elevata presenza di attività di volontariato. [12] In una società che sembra avere posto l’ideale del guadagno e dell’ottimizzazione dei profitti in cima alla propria scala dei valori, ritroviamo numerose testimonianze di un impegno che non ha nulla di remunerativo, se analizzato in chiave utilitaristica. Che cos’è l’azione di volontariato se non un dono offerto sotto forma di servizi ? E che dire dei moltissimi « donatori » di sangue e di organi che consentono di salvare numerose vite, senza guadagno materiale alcuno ?

Anche noi doniamo. Il problema è perciò un altro : non ce ne rendiamo conto. Il nostro immaginario è stato talmente condizionato dall’ideologia del mercato, che ci sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti. Serge Latouche mette in luce come spesso questa colonizzazione dell’immaginario ci induce a pensare che ogni forma di scambio sia necessariamente finalizzata all’ottenimento di un utile : « Si presuppone implicitamente che ogni scambio sia un mercato e si attribuiscono più o meno a ogni mercato le virtù del grande mercato della teoria economica ». Così finiamo per definire noi occidentali come assillati dal mercato quando, come sostiene ancora Latouche, gli intellettuali che scrivono a favore del mercato totale il più delle volte non obbediscono a una motivazione mercantile ! [13] Per contro, attribuiamo talvolta un’eccessiva carenza (se non una totale ignoranza) di logiche mercantili a società che utilizzano invece l’una o l’altra logica in momenti diversi del loro agire quotidiano.

Come afferma Remo Guidieri : « L’ideologia utilitaristica conserva, fingendo di ignorarle, contraddizioni che sembrano piuttosto favorire l’ossificazione di certi dogmi al punto che la corsa disperata alla pretesa razionalità sfocia nell’utopia e nell’atrofizzazione del pensiero ». [14] Il dono si nasconde nelle pieghe delle nostre azioni e non ci accorgiamo che molte di queste non sono affatto mosse da logiche utilitaristiche. Intendiamoci, « non utilitaristiche » non significa « gratuite ». Il dono non è mai gratuito. Come mise già in evidenza Marcel Mauss, il dono non è una prestazione puramente gratuita, né una produzione o uno scambio puramente a fine di lucro, ma una specie di ibrido. Chi dona si attende un controdono. Qual è allora la differenza tra donare e contraccambiare e un normale scambio mercantile ? Quando si pone il problema a coloro che donano, quando si chiede loro perché donano, emerge un aspetto sostanziale : la libertà. L’assenza di costrizione, vale a dire assenza di contratto, di coercizione. [15] Prendiamo un esempio estremo : i donatori di sangue. Uomini e donne che donano parte di se stessi senza materialmente ricevere nulla in cambio, tranne un appagamento personale che è uno dei moventi dell’atto del donare.

Il terzo paradigma

Nelle scienze sociali si sono venuti a creare due paradigmi fondamentali. Il primo è quello che viene definito utilitarista o individualismo metodologico e che in qualche modo rivolge la sua analisi all’individuo, concependolo soprattutto come homo oeconomicus, teso a perseguire il proprio interesse individuale. Tale concezione deriva dall’idea che il rapporto sociale può e deve essere compreso come la risultante dell’intrecciarsi dei calcoli effettuati dai singoli individui.

Il secondo è invece un paradigma collettivista, di cui Emile Durkheim, maestro (e zio) di Mauss, è stato uno dei maggiori fautori, che vede l’individuo assoggettato alle regole della sua cultura e della sua società. In questo caso è la cultura a fare sì che gli uomini si scambino doni affinché la società possa continuare a esistere. Su questa linea di pensiero si collocano anche lo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss e l’olismo teorizzato da Louis Dumont : sono i legami sociali che spingono gli uomini a donare.

Uno o tutti ? Individuo o società ? « Noi » o « loro » ? Ecco le dicotomie create da questi paradigmi, nessuno dei quali però, avverte Caillé, spiega la genesi del legame sociale. Infatti, dipingendo gli esseri umani come individualisti e tesi solo a soddisfare i propri interessi, si attribuiscono loro caratteristiche predeterminate di egoismo, quasi « genetiche », preesistenti e immutabili. Nel caso dei collettivisti, anteponendo la società all’individuo e ritraendo quest’ultimo come assoggettato a una sorta di vincoli rituali, religiosi, sociali calati dall’alto, si arriva a concludere che cultura e società preesistono all’individuo. [16]

Ma non sono forse, cultura e società, prodotte dagli individui ? E’ questa la domanda che si sono posti, tra gli altri, i fondatori del MAUSS (Mouvement Anti-utilitariste dans les Sciences Sociales), il cui acronimo non è certo casuale e tradisce la stima nutrita nei confronti del grande studioso francese. Uno dei punti su cui maggiormente si sono concentrati questi studiosi è stata la rilettura in chiave moderna della teoria di Mauss e la riattualizzazione del concetto di dono. [17] Caillé propone un terzo paradigma o paradigma del dono, ponendo la questione quasi in termini di scommessa : e se fosse proprio il dono l’elemento attraverso il quale gli uomini creano la loro società ? Il dono diventa in questo caso promotore di relazioni. Ciò che apre la strada al dono è la volontà degli uomini di creare rapporti sociali, perché l’uomo, non si accontenta di vivere nella società e di riprodurla come gli altri animali sociali, ma deve produrre la società per vivere. [18]

Questo paradigma non propone solo il dono come elemento fondante della società primaria, ma costringe a spostare in avanti il livello di lettura del « valore » di beni e servizi. Nell’economia classica, con un approccio condiviso anche da Marx, si sostiene che beni e servizi da un lato hanno un valore determinato dai bisogni che riescono a soddisfare (valore d’uso), dall’altro valgono in base alla quantità di denaro o di altri beni e servizi che si riescono ad acquistare (valore di scambio). Se accettiamo il terzo paradigma, dobbiamo allora aggiungere che esiste un altro tipo di valore, quello legato alla capacità che beni e servizi, se donati, hanno di creare e riprodurre relazioni sociali : un valore che potrebbe essere chiamato valore di legame, in quanto, con tale approccio, il legame diventa più importante del bene stesso. [19]

Ecco come, con un’eccellente definizione, Jacques T. Godbout sintetizza il carattere del dono : « Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone ». [20]

In questa nuova prospettiva pesa molto un’intuizione di Mauss forse neppure troppo valutata dall’autore stesso. Mauss introduce nel collettivismo teorizzato da Durkheim lo spazio di libertà d’azione fornito dal dono. Il dono, infatti, implica una forte dose di libertà. E’ vero che c’è l’obbligo di restituire, ma modi e tempi non sono rigidi e in ogni caso si tratta di un obbligo morale, non perseguibile per legge, né sanzionabile. Il valore del dono sta nell’assenza di garanzie da parte del donatore. Un’assenza che presuppone una grande fiducia negli altri. Il valore del controdono sta nella libertà : più l’altro è libero, più il fatto che ci donerà qualcosa avrà valore per noi quando ce lo darà. [21]

Ma perché ci si sente obbligati a restituire ? Secondo Mauss negli oggetti donati esiste « un’anima » che li lega a colui che li dona. Tale forza fa sì che ogni oggetto prima o poi tenda a ritornare al suo proprietario sia nella sua forma originaria sia sotto forma di altri doni equivalenti. Mauss in particolare faceva riferimento allo hau, un concetto che per i Maori esprime un’essenza vitale insita negli esseri umani, nella terra e nelle cose. Quando un oggetto, che incorpora lo hau, viene donato ad altri, lo spirito dell’oggetto cerca di ritrovare il suo luogo d’origine. Gli oggetti donati possederebbero pertanto una forza propria, un loro spirito, trasmesso all’oggetto dalla persona che li possiede. Questo perché sono una sorta di prolungamento degli individui e questi si identificano nelle cose che possiedono e che scambiano.

Questa interpretazione ha esposto Mauss alla critica di Lévi-Strauss, secondo il quale l’autore del Saggio sul dono era caduto nella trappola delle interpretazioni indigene fondate sulla magia. La spiegazione fornita da Mauss appariva a Lévi-Strauss connotata di un animismo che non poteva essere condiviso dagli antropologi. [22] Quello che Mauss, traendo esempi da concezioni religiose polinesiane come lo hau maori, definisce come spirito delle cose, non sarebbero concetti specifici e particolari delle popolazioni del Pacifico, ma forme di pensiero universali e permanenti le quali seguono itinerari tracciati una volta per tutte nella struttura innata dello spirito umano e nella storia particolare e irreversibile degli individui e dei gruppi. « Questi tipi di nozione (mana, hau) – dice Lévi-Strauss – intervengono per rappresentare un valore indeterminato di significato, di per se stesso vuoto di senso e pertanto suscettibile di ricevere qualunque senso la cui unica funzione è di colmare lo scarto tra il significante e il significato ». [23]

Lévi-Strauss, che aveva da poco pubblicato la prima edizione de Le strutture elementari della parentela [24], propone come chiave di lettura quella dei « significanti fluttuanti ». Le concezioni polinesiane care a Mauss sarebbero quindi simboli allo stato puro, i quali non dicono nulla di per se stessi, ma direbbero molto sugli uomini che li pensano. Lévi-Strauss ha sempre sostenuto il primato del simbolo, così come l’origine simbolica della società che nasce proprio dallo scambio. Scambio che prima di tutto è simbolico, e quindi presente nella mente di tutti gli uomini, e poi diventa reale.

Di parere diverso è Maurice Godelier il quale, pur condividendo la critica di Lévi-Strauss a Mauss, non crede al primato del simbolo. Secondo Godelier, contrariamente a quanto afferma Lévi-Strauss, i meccanismi non sono mentali, ma sociologici. La forza che spinge le cose a circolare, come nel kula ring, studiato da Malinowski, non sta nelle cose stesse, ma nel proprietario.

La logica del dono vuole che per una cosa donata se ne riceva un’altra. Questo donare-ricevere innesca una spirale di riconoscenza, ma non annulla il debito tra i due partner. Allora, si chiede Godelier, perché restituire, se la restituzione non annulla il debito ? Una risposta sembra venire dal paradosso del « donare conservando » (keeping-while-giving) formulato da Annette Weiner, anch’essa oceanista. La Weiner fonda questa sua teoria sulla differenza, reputata fondamentale, tra beni inalienabili, che non possono essere donati, e beni alienabili. Alcune cose, come la maggior parte delle merci, sono facili da donare, ma ci sono altre proprietà che sono impregnate dell’intrinseca identità dei loro possessori e che pertanto non sono facili da donare, in quanto sono depositi simbolici di genealogie ed eventi storici. La loro unica e soggettiva identità conferisce loro un valore assoluto, collocandoli a un livello superiore a quello degli oggetti di scambio. Ci sono proprietà che origini prestigiose, successioni, un’autorità legata agli dei, un diritto divino, gli antenati e uno status elevato rendono diverse da altri beni dello stesso tipo. Il paradosso sta nel fatto che tali proprietà vengono, di volta in volta, scambiate, perdute in guerra, distrutte dai rivali o vendute. Nonostante questo, il proprietario continua a mantenere un forte legame sul bene perduto (un nobile decaduto può vendere la sua carica, ma lui rimarrà sempre un nobile e l’acquirente un parvenu). [25]

In pratica, sostiene Annette Weiner, non è vero che tutto circola e in ogni caso il donatore originario non cesserà di avere diritti sull’oggetto che ha donato. A essere alienato è quindi l’utilizzo, non la proprietà. [26] A tale proposito, Remo Guidieri fa notare come, invece di dono, forse sarebbe meglio parlare di « prestito » per designare i fenomeni illustrati da Mauss. Il dono, il vero dono, sarebbe una perdita secca, non una prestazione concepita come un obbligo che innesca la terribile spirale dell’indebitamento. [27]

Il paradosso della Weiner appare un po’ troppo « paradossale », soprattutto se estrapolato dal suo contesto locale e in qualche modo sostituisce la magia evocata da Mauss con una sorta di potere di controllo a distanza che sa anch’esso un po’ di magico. La proposta di Guidieri implica l’esistenza di un dono a perdere, che però non pare trovare riscontro nella realtà. Mentre il modello di Mauss, seppur con aggiustamenti e contestualizzazioni, continua a mantenere una sua efficacia dopo un’ottantina d’anni, alcuni tentativi di renderlo più raffinato finiscono per impoverirne la portata universalista. La forza di un modello sta anche in quel tanto di genericità che lo rende appunto un « modello », non una regola.

Ambiguità del dono

Nel novembre del 2000 padre Alex Zanotelli, missionario comboniano da anni impegnato ad aiutare i poveri nella baraccopoli di Korogocho, alla periferia di Nairobi, rifiutò i 500 milioni del premio « Feltrinelli », assegnatogli dall’Accademia dei Lincei, suscitando scandalo e indignazione presso molti che pure stanno dalla parte dei deboli come lui. « I poveri non hanno bisogno di carità, ma di modifiche strutturali » sostenne. Con quella presa di posizione provocatoria, Zanotelli ha smascherato l’ambiguità che talvolta si cela dietro il dono o meglio, dietro a un certo tipo di dono.

Quando regaliamo qualcosa a qualcuno, compiamo un atto personalizzato. Regaleremo, probabilmente, qualcosa che ci fa piacere regalare, ma tenendo presenti i gusti e la personalità del destinatario. Pertanto, in quel dono ci sarà qualcosa di noi e qualcosa di chi lo riceverà, perché in fondo gli oggetti sono ricettacoli di identità. [28]

Accade però che nella nostra società si presentino occasioni di donare in modo spersonalizzato o generalizzato. Sappiamo che il nostro sistema economico è alla base di notevoli diseguaglianze, sia all’interno della nostra stessa società sia nei confronti di quei milioni di individui che abitano il cosiddetto Sud del mondo. Spesso, per « riparare », almeno in parte, le fratture causate dall’economia, si finisce per chiedere aiuto allo Stato o alle numerose associazioni di volontariato e di carità che caratterizzano la nostra società. Il dono della carità, istituzionalizzato tramite tali enti organizzati, non è più un dono al prossimo, cioè al vicino, a qualcuno che conosciamo, ma diventa un dono finalizzato a lenire tutte le sofferenze in generale. Al soggetto singolo del destinatario si sostituisce una categoria (poveri, affamati, affetti da determinate malattie, colpiti da catastrofi) più o meno vasta e quanto mai anonima. Questo tipo di dono diventa un atto che lega soggetti astratti : un donatore che ama l’umanità e un destinatario che incarna la miseria del mondo. [29]

Prendiamo il caso della beneficenza televisiva e delle varie maratone che la sostengono. Nella sua spettacolarizzazione, rappresenta uno dei tratti distintivi recenti della nostra epoca. Si tratta di una tipica forma di dono generalizzato, che non prevede un controdono in beni materiali. Se un beneficio per il donatore c’è, sarà semmai di tipo interiore. Si tratta di una sorta di riconversione. Il donatore non offre qualcosa di veramente suo, non sceglie un oggetto che rappresenti in qualche modo il rapporto tra lui e il destinatario. Il donatore offre del denaro, suo come appartenenza materiale ed economica, ma non « suo » in quanto segnato da un rapporto affettivo unico (se affetto o attaccamento c’è, è per il denaro in genere, non per « quel » denaro). D’altra parte, nemmeno conosce il destinatario, né si aspetta da lui che ricambi il dono ricevuto. Il « dono generalizzato » è una ruota che gira. Si dà non a qualcuno ma alla società e si sa che si riceverà. [30]

Si fa quindi la carità per aiutare i poveri del mondo, gli affamati, gli ammalati, ma la carità, avverte Mauss, « ferisce chi la riceve », è umiliante. Umiliante, perché chi riceve non può restituire. Il circolo virtuoso identificato da Mauss si spezza. Al triangolo donare-ricevere-contraccambiare viene a mancare un lato, l’ultimo. Questo « buco » dà vita a gerarchie sociali ed economiche che si trasformano inevitabilmente in rapporti di forza e trasforma il ricevente in debitore impotente.

Se la carità, in quanto dono indifferenziato, non prevede un dono di ritorno, anche perché non è indirizzata a un particolare destinatario, è allora davvero disinteressata. Nulla è meno gratuito del dono, sostiene Mauss. Il problema sta ancora una volta nella colonizzazione del nostro immaginario da parte del pensiero utilitarista, che ci fa sembrare un « nulla » ciò che invece è importante. Non siamo solo e sempre « economicisti », tesi a massimizzare i nostri guadagni materiali. Come sostiene anche il Premio Nobel per l’economia Amartya Sen, pure nel capitalismo c’è una forte componente morale [31] e lo stesso Adam Smith, divenuto ormai un abusato profeta del libero mercato, non ha solo scritto Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ma è stato anche autore di Teoria dei sentimenti morali.

La carità assolve un ruolo di medicamento dell’anima, gratifica chi la fa e gli mette il cuore in pace. L’indignazione di padre Zanotelli, allora, non appare più un gesto provocatorio dettato dall’irruenza tipica del personaggio, ma una chiara denuncia dell’ambiguità che talvolta si nasconde dietro la generosità di chi, magari anche in buona fede, dona. Salvo poi, come nel caso in questione, avallare leggi le quali, mettendo in ginocchio le economie di certi paesi, diventano una delle cause di quella povertà che poi si vuole lenire con il dono. [32]

Il dono, abbiamo visto, costruisce legami e pertanto getta le basi della società, ma la sua esasperazione può arrivare a mettere in moto un processo opposto. L’obbligo di restituire è uno degli atti fondamentali del dono e il dono concede una certa libertà rispetto all’arco di tempo impiegato per restituire e all’entità del controdono. E’ però vero che un ritardo eccessivo o un dono di molto inferiore a quello ricevuto suscitano disagio e generano un’asimmetria nel rapporto. Siamo soliti dire « basta il pensiero », ma, ammettiamolo, è una forma di sottile ipocrisia, perché in fondo ci aspettiamo non una parità matematica, ma almeno un pari impegno (economico o morale) da parte dei nostri partner. Da collante sociale il dono può allora trasformarsi in arma di distruzione. I due donatori diventano antagonisti e in certi casi potranno arrivare a utilizzare il dono per colpire, umiliare, distruggere il rivale.

E’ il caso dei potlatch, che tanto colpirono Marcel Mauss. Questi rituali di distruzione, dove i protagonisti facevano a gara a chi riusciva a offrire di più, accrescendo così il proprio prestigio a scapito dei contendenti, possono essere considerati una forma estrema di dono utilizzato non per creare legami, ma per spezzarne o incrinarne altri. Non a caso Georges Bataille chiama dono di rivalità l’atto ostentatorio che è al centro del potlatch. Per Bataille, il « valore di scambio del dono » deriva dal fatto che il beneficiario, se vuole cancellare l’umiliazione inflittagli dal donatore, deve accettare la sfida e assumersi l’obbligo di rispondere con un dono più importante, vale a dire restituire a usura. [33]

Se il potlatch significa esagerazione, sovrabbondanza, spreco finalizzati ad acquisire più prestigio dell’altro, ritroviamo alcuni tratti simili in certi nostri banchetti nuziali, dove il cibo è quasi sempre in quantità superiore a quanto viene poi mangiato. Ma non è forse vero che da un pranzo di nozze più parco ed essenziale gli invitati uscirebbero brontolando, comparando quel pranzo con altri a cui hanno partecipato (magari con quello offerto da loro stessi) e muovendo critiche e accuse di tirchieria agli sposi ? Anche qui il dono si fa antagonista e implica pertanto competizione.

C’è però una differenza tra l’ostentazione del potlatch e quella dei banchetti e delle abbuffate. Entrambi sono degli « sprechi », è vero. Ma nel primo caso si accumula per distruggere, nel secondo per consumare. Nell’abbondanza conviviale e nelle bisbocce quel che si cerca è l’eccesso nel consumo. La distruzione, al contrario, sottrae le cose alla distribuzione e quindi anche al consumo. Nel potlatch, infatti, il potere è « il potere di perdere » dei beni, che sancisce l’onore. Tale potere è però l’opposto dell’obbligo di donare e di rendere. [34]

Debito ed equilibrio

Quando qualcuno ci fa un regalo, proviamo quasi sempre una duplice sensazione : da un lato l’emozione del ricevere qualcosa che spinge alla gratitudine verso il donatore ; dall’altro un lieve senso di imbarazzo, dovuto al fatto che in quel momento, mentre stringiamo tra le mani quel dono, sentiamo di essere passati in una condizione di debitori nei confronti di chi ci ha voluto farci un regalo. Il pensiero, infatti, si rivolge subito al modo in cui cercheremo di « sdebitarci ». Mia nipote Chiara, cinque anni, dopo aver ricevuto in regalo da una signora un portachiavi colorato, ha detto : « Quando arrivo a casa le faccio un disegno. Lei mi ha dato una cosa e io gliene do un’altra. Anche con mia cugina facciamo così ». Si sentiva in debito.

Legami, alleanze e amicizie, che possono nascere da uno scambio di doni, se questo è inserito in un contesto relativamente paritario, nel quale la restituzione è possibile, sono fondati essenzialmente sul debito.

Debito è una parola che non amiamo, ci fa sentire in colpa se gli indebitati siamo noi, in ansia se a dover saldare un debito nei nostri confronti sono altri. In questo caso però non si tratta di applicare le stesse regole che caratterizzano gli scambi commerciali. La diversità tra uno scambio di doni e uno scambio mercantile sta nel fatto che quando si acquista con moneta o si scambia un bene, al termine della transazione i partner si ritrovano proprietari di quanto hanno acquistato o barattato. Mentre prima dello scambio uno doveva dipendere dall’altro per soddisfare i propri bisogni, a scambio avvenuto, entrambi risultano reciprocamente indipendenti e senza obblighi. [35] Inoltre, nel caso del dono, il ricevente non « paga » sul momento, come in una normale transazione commerciale. Chiunque di noi si sentirebbe offeso se, facendo un regalo, ci vedessimo contraccambiare su due piedi con un altro regalo. La restituzione, il controdono, avviene nel tempo, magari in occasioni stabilite (festività, compleanni), ed è grazie a questa dimensione, prolungata nel tempo, che il debito si protrae e mantiene attivo il legame tra le due parti. Lo scambio mercantile ideale si basa sull’equivalenza e sull’abolizione del debito. Al contrario il dono induce all’indebitamento e non regola l’equivalenza. La peculiarità del dono sta qui, nel vincolo che questo stabilisce tra il donatore e il ricevente, un vincolo che crea immediatamente un debito.

Il problema nasce anche da una certa inadeguatezza, peraltro già segnalata da Mauss, di termini solitamente utilizzati, come dono e regalo, pur ammettendo che è difficile trovarne di più adatti. Come si possono chiarire nozioni di una cultura diversa -si chiede Guidieri a tale proposito - se i termini della nostra lingua che dovrebbero renderla accessibile restano vaghi e persino contraddittori ? [36] Il fatto è che nella nostra percezione tendiamo ad associare il debito alla sfera economica (debito pubblico, debito estero), mentre facciamo rientrare il dono in quella affettiva. Forse è per questo che siamo un po’ restii a chiamare con un freddo termine contabile quello che ci sembra essere invece un sentimento tra i più genuini, che riserviamo a parenti, amici e persone care. Infatti, come fa notare Godbout, nell’ambito familiare lo stato di debito è generalizzato ed è considerato normale, ma non viene percepito come tale. [37] I genitori spesso donano ai figli molto più di quanto ricevano, ma non si sentono per questo creditori, né necessariamente i giovani si sentono in dovere di sdebitarsi.

Anche in una coppia o tra amici si contraggono continuamente debiti (scambi di favori, di oggetti, d’affetto). In genere si dona a chi si vuol bene perché ci fa piacere l’atto del donare. Donando si genera però debito e quindi si crea uno squilibrio. Ma se osserviamo i rapporti di coppia o di amicizia è proprio nella situazione contraria, cioè in uno stato di equilibrio dare/avere che si determina la rottura di un rapporto. Il celebre gesto della restituzione dei regali al partner per sancire la fine di una storia ristabilisce infatti la parità e annulla il debito. Allo stesso modo, l’inizio di un rapporto è spesso segnato da un regalo o da uno scambio di regali, che altera la situazione di parità originale, creando asimmetria.

Questo fa pensare a una contraddizione : lo stato di debito provocato dal dono e dal successivo controdono dovrebbe portare a un equilibrio, ma allo stesso tempo genera una sorta di conflitto permanente. L’antropologia ci ha però insegnato come l’equilibrio di un gruppo non nasca per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati. [38]

Si dona per soddisfare il proprio piacere di vedere felice un’altra persona, ma non si tratta affatto di un atto gratuito. Tale gesto rientra in quella che Hochschild chiama « economia della gratitudine » : uno stato di debito reciproco, nutrito da surplus, da sorprese e che fa sì che ciascuno possa dire dell’altro : « gli devo tanto ». [39] Tale sistema è tutt’altro che altruistico : appare tale solo se letto con una lente utilitaristica. Il « guadagno », il ritorno esiste, ma va cercato in un ap-pagamento che non è oggettivamente quantificabile. Occorre infatti tenere conto delle diverse percezioni degli attori : ci sono casi in cui ognuno crede di avere ricevuto più di quanto ha donato. E’ questo a fare sì che un figlio riceva dai genitori più di quello che dà, senza per questo sentirsi in debito e allo stesso tempo i genitori siano felici di avere dato e appagati, magari, dal comportamento del loro figlio. In questo caso lo scambio di doni mostra ancora una volta la sua specificità e prende ulteriormente le distanze dallo scambio di mercato.

Il bene scambiato secondo una logica mercantile possiede un valore, assegnatogli dal mercato stesso, condiviso da venditore e acquirente. Ma esistono forme di scambio che sfuggono a questa logica. Gli antropologi ne hanno spesso trovate presso popolazioni caratterizzate da economie che Polanyi ha definito embedded. I sistemi di sfere di scambio, per esempio, sono emblematici. In alcune società non tutto si può scambiare e soprattutto non è possibile farlo con qualsiasi altro bene. Esistono regole che impediscono lo scambio tra beni appartenenti a sfere diverse per le loro caratteristiche morali. Tra queste sfere si viene a formare una gerarchia di valori e solo raramente è possibile convertire un bene appartenente a una sfera in uno che rientra in un’altra. Gli uomini però non sono fatti per seguire regole troppo rigide, sebbene se le impongano. Accade così che alcuni beni, reputati di scarso valore presso una popolazione, possano essere scambiati con altri gruppi che, al contrario, valutano maggiormente quei beni. Questi, magari, daranno a loro volta cose per loro poco pregiate, ma stimate dagli altri. Entrambi saranno convinti di avere guadagnato da quello scambio. [40]

Ritorniamo alle nostre situazioni conviviali e scopriremo che anche nel nostro mondo utilitaristico, ci siamo ritagliati sfere di scambio dove i valori non sono stabiliti dal mercato, ma dalla nostra percezione. E’ questo l’ambito del dono. « Ci sono cose che non hanno prezzo » siamo soliti dire. La soddisfazione che ci deriva dell’aver donato qualcosa a una persona cara, pur appagandoci, è una di queste. E’ attraverso la costruzione di tali condizioni di soddisfazione reciproca che spesso si riescono a controllare i conflitti.

Nella letteratura sul dono gli autori, Mauss per primo, si sono concentrati di più sul « restituire », trascurando gli altri due termini : « donare » e « ricevere ». Questo perché si tendeva alla ricerca dell’equilibrio, mentre invece è lo stato di « debito » a caratterizzare il fatto sociale totale legato al dono, e « il dono ha orrore dell’eguaglianza ; ricerca l’ineguaglianza alterna ». [41]

Modernità del dono

« Eppur si dona » potremmo esclamare, nonostante le apparenze e le nostre convinzioni ci portino a pensare altrimenti. Nella maggior parte dei casi siamo indotti a credere che si tratti di un’eccezione alla regola, dove la regola è scambiare con un guadagno da parte di entrambi i contraenti. Questo perché il dono, come viene concepito nella sua accezione contemporanea, è il prodotto di un’idealizzazione portata avanti da duemila anni di Cristianesimo, per cui si parla di dono solo quando questo è assolutamente gratuito, unilaterale, senza aspettativa di ricambio, in poche parole, disinteressato. [42]

Abbiamo visto che non è così, ma spesso le società si pensano diversamente da come sono e il riflesso di questo pensiero finisce per condizionarne l’azione. Come afferma Clifford Geertz, l’uomo rimane spesso impigliato nella rete di simboli da lui stesso creata. [43]

A quanto pare, abbiamo delegato allo Stato, alla scienza e al mercato il compito di soddisfare i nostri bisogni, ma questi tre soggetti non riescono ad assolvere totalmente il loro compito. Saremmo davvero felici in una società efficentissima, ipertecnologica, ultrarazionale e superburocratizzata ? Lo scenario sarebbe quello ipotizzato da Aldous Huxley nel suo Nuovo mondo, e decine di altri libri e film fantascientifici non fanno altro che raccontarci le fughe di pochi « resistenti », non allineati, da un futuro simile. Non si tratta solo di rifugiarsi all’ombra rassicurante del mito del buon selvaggio, ma di constatare che la razionalità a cui tendiamo o meglio, con cui ci dipingiamo, non è sufficiente. Stato, mercato e scienza sono istituzioni reali e costituiscono la chiave dell’ordine sociale moderno, ma non rappresentano la società nella sua interezza. Danno vita semmai al terreno su cui si muove quella che Caillé chiama la socialità secondaria, in cui le relazioni si sviluppano tra funzioni e non tra individui. [44] Al contrario, la socialità primaria necessita invece di una personalizzazione dei rapporti, che va costruita nel tempo.

Appare abbastanza evidente che la realtà urbana, fatta di grandi numeri, così come il modello contemporaneo di lavoro, basato su lunghi spostamenti, relazioni telefoniche e telematiche, nonché l’accelerazione generalizzata delle azioni finalizzate a una maggiore efficienza non favoriscono certo il maturare di una socialità personalizzata. Siamo nel pieno di quella che Paul Virilio chiama surmodernità, un’accelerazione della storia dove la rapidità ha annullato le distanze e pertanto il tempo prevale sullo spazio. Accade però che da qualche anno, proprio a Londra, a Parigi, a Zurigo e in altre grandi città europee, cioè nelle culle della modernità, siano stati avviati dei tentativi di creare delle alternative.

Parliamo dei cosiddetti circuiti di scambio locale. Si chiamano SEL (Systèmes d’échanges locaux) in Francia, LETS (Local Exchange Trade Systems) nel Regno Unito, Tauschring (letteralmente circuito di scambio) in Germania e Banche del Tempo in Italia. [45] Con forme e organizzazioni diverse, questi sistemi locali tendono a spostare l’accento dallo scambio commerciale a uno scambio non regolamentato da una meccanica, ma che prevede una forma di moralità. [46]

L’ispirazione per la realizzazione di questi sistemi è stata tratta da realtà simili operanti a Grand Yoff, un quartiere di Dakar. Cosa è accaduto in Senegal ? Che per fare fronte a un sistema economico di marchio occidentale, amato dalle élite dei funzionari ma troppo lontano dalle esigenze della gente comune, si è tentato di riproporre in chiave moderna quella che gli antropologi definiscono « l’economia degli affetti ». Niente di più naturale che recuperare le tradizionali relazioni parentali, struttura fondante della società africana, e farle funzionare come rete di scambio. In che modo ? « Noi sotterriamo una iena per disseppellire un’altra iena » dicono le donne di Dakar, citando un proverbio sererè (popolazione senegalese), che diventa involontariamente una sorta di slogan di questa nuova forma di economia antiutilitarista.

Se un individuo ha bisogno di un aiuto, sotto forma di manodopera o di beni di consumo, potrà accedere alle risorse esistenti nel gruppo di persone che costituiscono il suo circuito di scambio. Individui che sono legati tra di loro non solo da vincoli parentali veri e propri, ma anche da quella parentela scherzosa, caratteristica di molte regioni dell’Africa, che crea legami di tipo famigliare anche al di fuori dei consanguinei. A sua volta il beneficiario restituirà al donatore un servizio o dei beni per rifonderlo del favore. Si tratta di un banale baratto, si potrebbe obiettare. Invece no. La differenza sta proprio nell’attivazione del circuito. Il baratto mercantile è un semplice scambio tra due commercianti senza l’utilizzo del denaro. In questo caso invece tra gli individui che si scambiano beni e servizi, si consolida sempre di più un legame di solidarietà che rafforza il circuito stesso. In pratica il bene viene rimpiazzato dal legame.

Da noi però i clan e le famiglie allargate non esistono, si può obiettare. Ciò non significa che non si possano stabilire legami di solidarietà tra persone che condividono il desiderio di tentare di dare vita a un nuovo sistema, sia pure su piccola scala.

Il primo SEL è stato fondato nell’estate del 1994, il secondo nel dicembre dello stesso anno. Meno di due anni dopo i SEL francesi erano già 120 e il loro numero sta crescendo rapidamente. In Gran Bretagna, dove i LETS sono nati qualche anno prima, si contano oggi oltre 400 circuiti di scambio. Il successo è quindi evidente. Anche in questi circuiti urbani europei lo scambio di beni e servizi è alla base del sistema.

All’interno di un SEL il lavoro si scambia con altro lavoro e non con del capitale. Questa è la filosofia che sta alla base di tali meccanismi sociali. Un discorso del genere può forse apparire un po’ utopico, eppure i primi LETS sono nati in una realtà razionale e protestante come quella britannica. I sistemi di scambio locali più che risolvere questioni economiche, danno vita a una nuova forma di socialità, un bene raro nel nostro mondo. Inoltre il carattere locale di questi circuiti consente di raggiungere soluzioni più concrete e attuabili di quelle proposte dagli enti pubblici, spesso troppo lontani dal quotidiano.

Facciamo un esempio concreto : Giovanni ha bisogno di una baby sitter, però non dispone dei soldi necessari per permettersi di pagare una ragazza. Francesca invece ha il motorino rotto e deve prendere l’autobus per recarsi all’università. Fino qui sarebbe semplice ipotizzare uno scambio di favori : Giovanni ripara il motorino a Francesca e questa accudisce i bambini per una sera. Si tratterebbe della forma più antica di scambio : il baratto. Però c’è un problema, Giovanni è un medico, non un meccanico e non è in grado di riparare il motorino della studentessa. Mario però lo è. Basta mettersi d’accordo : Francesca farà la baby sitter a Giovanni, il quale diventa debitore nei suoi confronti di un certo numero di ore di lavoro. Mario ripara il motorino di Francesca, rilevando così il suo credito nei confronti di Giovanni. Quest’ultimo pagherà il suo debito fornendo assistenza medica a Mario in caso di necessità.

Se immaginiamo questo semplice meccanismo moltiplicato per decine o centinaia di persone, abbiamo realizzato un sistema di scambio locale. Tali sistemi rappresentano un tentativo di creare impiego residuale rispetto ai vincoli macroeconomici (la concorrenza mondiale, i parametri di Maastricht, ecc.) e si fondano su una forma di solidarietà circoscritta a un ristretto numero di partecipanti. Gli stessi promotori di questi gruppi sono pienamente consci del fatto che tali iniziative non possono certamente sostituire il modello economico vigente. E’ però importante mettere in evidenza e valorizzare la ricchezza pedagogica di tale formula, che se non altro ha il grande merito di proporre un sistema alternativo e di dimostrare che non siamo necessariamente costretti ad arrenderci a tutti i costi davanti al vangelo dei grandi finanzieri internazionali. Grazie a queste iniziative, si riscoprono le virtù della cosiddetta economia informale, quella che Latouche chiama « neoclanica » e che consente agli attori di passare da uno scambio freddo e anonimo a un sistema di scambi « caldi » e personalizzati.

Un’annotazione quasi di colore. I primi circuiti europei di scambio sono nati a Londra e Parigi, le due capitali del colonialismo africano. Legge del contrappasso ? No, semplicemente il tentativo di ricostruire o recuperare quella forma di oikonomia vernacolare [47], basata appunto su una maggiore personalizzazione degli scambi e sull’affrancamento dalla logica di mercato in favore di un avvicinamento al modello del dono teorizzato da Mauss. Fare doni significa infatti tentare di sottrarsi, almeno in parte, all’imperativo economico dominante.

Abbiamo visto come, mentre la socialità secondaria mette in relazione individui che non si conoscono, lo scambio di doni contribuisce alla creazione di una socialità primaria. Questa dà vita a un ordine interno e non può essere generalizzata ed estesa all’infinito, pena la dissoluzione stessa della sua essenza costitutiva. Si tratta di una socialità che fa riferimento a un « noi » ben determinato, che ripropone rapporti face to face e quelle dinamiche individuate da Redfield come caratteristiche della piccola comunità. [48]

I sistemi di scambio locali, utilizzando una logica che si avvicina a quella del dono maussiano, in fondo non fanno altro che tessere reti di relazioni che portano gli individui che vi aderiscono a conoscersi e a instaurare una catena di debiti che li lega tra di loro. Individui che allora non saranno più estranei l’uno all’altro, ma daranno vita a un « noi » che, sebbene non condizioni la totalità della loro esistenza, potrà agire in molti spazi lasciati vuoti dalla rete della socialità secondaria.

Sostituendo il contratto con il dono, tali sistemi tentano di reincastrare l’economia nella società. L’uomo è soprattutto un essere relazionale. Ecco allora che la lezione dell’antropologia oceanista torna di attualità e il dono può abbandonare il suo guscio di esotismo e di primitivismo e riproporsi come un riferimento per contrastare quell’anonimato che tanto ci spaventa. Oggi, a ottant’anni di distanza, magari parzialmente disintossicati dalla morale utilitaristica dominante, scopriamo la grande attualità della lezione di Marcel Mauss.

NOTES

[1Cfr. Jack Goody, The expansive moment. The rise of social anthropology in Britain and Africa 1918-1970, Cambridge, Cambridge University Press, 1995.

[2B. Malinowski, Gli argonauti del Pacifico occidentale, Newton Compton, Roma, 1973 (ed. or. 1922).

[3J.-M. Tjibaou, La présence kanak, Odile Jacobs, Paris, 1997, p. 108.

[4M. Leenhardt, Do kamo. La personne et le mythe dans le monde mélanésien, Gallimard, Paris, 1947, p. 248.

[5M. Naepels, « ”La promenade du moi”. Subjectivité, temps et participation chez Maurice Leenhardt », manoscritto. Una traduzione italiana apparirà su Etnosistemi 2002.

[6M. Leenhardt, « La personne mélanésienne », Annuaire de l’Ecole Pratique des Hautes Etudes, Melun, 1942, p. 100.

[7A tale proposito si vedano le critiche alla ragione etnologica di J.-L. Amselle in Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino, 1999 (ed. or. 1990).

[8J.T. Godbout, Il linguaggio del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 9-11.

[9A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.

[10Una mancanza che, sempre secondo Caillé, deriva anche dalla sottovalutazione di Mauss e della sua rivoluzionaria intuizione.

[11Su questi temi si vedano : G. Hyden, Beyond Ujamaa in Tanzania. Undervelopment and an Uncaptured Peasantry, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1980 ; R. Lemarchand, « African Peasantries, Reciprocity and the Market. The Economy of Affection Reconsidered », Cahiers d’Etudes Africaines, 1989, 113, XXIX, pp. 33-67 ; S. Latouche, L’altra Africa. Tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino, 1997 ; M. Aime, La casa di nessuno. Mercato e mercati in Africa occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

[12P. Rumiz, La secessione leggera. Dove nasce la rabbia del profondo Nord, Feltrinelli, Milano, 2001.

[13S. Latouche, 1997 cit., pp. 70-72.

[14R. Guidieri, « Saggio sul prestito » in Voci da Babele, Guida, Napoli, 1990, p. 47.

[15J.T. Godbout, 1998 cit., p. 21.

[16A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 37.

[17Tra i principali promotori del MAUSS ricordiamo Gérard Berthoud, Alain Caillé, Jacques T. Godbout, Jean-Louis Laville, Serge Latouche e Guy Nicholas.

[18M. Godelier, L’enigme du don, Fayard, Paris, 1996, p. 141.

[19A. Caillé, 1998 cit., p. 79-80.

[20J.T. Godbout, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 30.

[21J.T. Godbout, 1998 cit., p. 22-24.

[22C. Lévi-Strauss, « Introduction a l’œuvre de Mauss » in Mauss, Sociologie et Anthropologie, PUF, Paris, 1950 (tr. it. in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965. Sulle critiche di Lévi-Strauss a Mauss si veda anche U. Fabietti, « Il ‘silenzio’ di Mauss » in U. Fabietti, La costruzione della giovinezza e altri saggi di antropologia, Guerini, Milano, 1992, pp. 53-60.

[23C. Lévi-Strauss, 1950 cit., p. XLIII-XIV.

[24C. Lévi-Strauss, Les structures éleméntaires de la parenté, PUF, Paris, 1949 (tr. it. Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano, 1969).

[25A. Weiner, Inalienable Possession : The Paradox of Keeping-while-Giving, University of California Press, Berkeley, 1992, p. 36-37.

[26A. Weiner, 1992 cit.

[27R. Guidieri, 1990 cit., p. 40. Un’interessante applicazione della teoria di Guidieri è quella di F. Cappelletto, « Prestito e dono : l’ambiguità delle categorie », DiPAV, 2001, 1, pp. 109-120.

[28R. Guidieri, 1990 cit., p. 61.

[29M. Godelier, 1996 cit., p. 12.

[30J.T. Godbout, 1998 cit., p. 40.

[31A. Sen, La ricchezza della ragione. Denaro, valori, identità, il Mulino, Bologna, 2000, p. 5.

[32In particolare, Zanotelli faceva riferimento alla legge europea che consente di produrre cioccolato con una minima quantità di cacao. Una decisione che ha messo fortemente in crisi paesi africani e mesoamericani la cui economia si basava proprio su quella produzione.

[33G. Bataille, La parte maledetta, Bertani, Verona, 1972, p. 112.

[34R. Guidieri, 1990 cit., pp. 42-45.

[35Cfr. C. Gregory, Gift and Commodities, Academic Press, Londra-New York, 1982.

[36R. Guidieri, 1990 cit., p. 25.

[37J.T. Godbout, 1998 cit., pp. 32-34.

[38Questo è stato uno dei temi caratterizzanti della Scuola di Manchester. Si vedano, per esempio, V. Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, Morcelliana, Brescia, 1972 (ed. or. 1969), M. Gluckman (a cura di), Il rituale nei rapporti sociali, Officina, Roma, 1972 (ed. or. 1962). Sul concetto di equilibrio si veda F. Remotti, « Questioni di equilibrio. Da Vilfredo Pareti ai Banande dello Zaire » in Etnografia nande I. Società, matrimoni, potere, il Segnalibro, Torino, 1993, pp.169-220.

[39A.R. Hochshild, The Economy of Gratitude, in D. Franks e E. D. McCarthy, The Sociology of Emotions, Jai Press Inc., Greenvich. Conn., 1989, pp. 95-113 citato in J.T. Godbout, 1998 cit., p. 49.

[40A tale proposito si veda R. Launay, « Transactional Spheres and Inter-Societal Exchange in Ivory Coast », Cahiers d’Etudes africaines, 72, XVIII-4, 1978, pp. 561-573.

[41J.T. Godbout, 1998 cit., p. 46.

[42A. Caillé, « Uscire dall’economia » in S. Latouche (a cura di), L’economia svelata. Dal bilancio familiare alla globalizzazione, Dedalo, Bari, 1997, p. 200.

[43C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna, p. 41.

[44A. Caillé, « Uscire dall’economia » in S. Latouche (a cura di), L’economia svelata. Dal bilancio familiare alla globalizzazione, Dedalo, Bari, 1997, p. 202.

[45Sulle banche del tempo si veda P. Coluccia, La banca del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2001. Una interessante comparazione tra i diversi sistemi è stata affrontata da Monica Corino, Banche del Tempo, costruzione di nuove forme di socialità ?, Tesi di Laurea presso l’Università di Genova, Facoltà di Lettere, A.A. 2000-2001.

[46Si veda M.Bloch, J. Parry, Money and the morality of exchange, Cambridge, Cambridge University Press, 1989.

[47S. Latouche, 1997 cit., p. 26.

[48R. Redfield, La piccola comunità e la cultura contadina, Torino, Rosenberg & Sellier, 1976 (ed. or. 1955).