Revue du Mauss permanente (https://journaldumauss.net)

Marino Niola

Il lievito del dono

Texte publié le 10 juin 2014

Datta : che cosa abbiamo dato ?

Amico mio, sangue che mi scuote il cuore,

La terribile audacia d’un momento d’ abbandono

Che una vita di prudenza non potrà mai revocare

Per questo, e questo soltanto, noi siamo esistiti

T.S. Eliot, La terra desolata

Il furto della Vergine

Una leggenda mediterranea racconta che all’inizio dei tempi gli uomini facevano il pane senza lievito. L’unica persona a conoscere il segreto della lievitazione era la Sibilla. Che in quanto donna più sapiente del mondo era anche maestra di scuola. Tra le sue allieve c’era la Madonna bambina. Marietta guardava sempre con un po’ d’invidia il pane gonfio e fragrante che usciva dal forno dell’indovina e non poteva fare a meno di paragonarlo a quello basso e tristanzuolo preparato da sant’Anna. Maria “mocciosa” che era molto furba cominciò a spiare la profetessa e si accorse che quando impastava l’acqua e la farina aggiungeva sempre una pallina morbida. Un giorno, approfittando della distrazione della maestra, rubò un pezzo dell’impasto, lo appallottolò e lo nascose sotto l’ascella. Da allora, dice la leggenda, gli umani hanno le ascelle cave. La futura Vergine corse a casa, diede il lievito a sua madre e le insegnò a usarlo come aveva visto fare alla Sibilla. Così anche gli uomini cominciarono a mangiare del buon pane.

Ma non fu l’unico regalo della bambina. Che, oltre al segreto della lievitazione, rivelò all’umanità anche quelli della conservazione e dello scambio del fermento. Un’altra leggenda racconta infatti che un giorno a scuola la piccola Maria prese di nascosto un pezzetto di impasto del pane lievitato e proprio come aveva visto fare alla Savia Sibilla, lo fece rotondo come una palla, lo mise in una tazza e la conservò nell’armadio lasciandovelo per parecchi giorni. Quando sant’Anna decise che era il momento di fare il pane, Marietta imitò la sua maestra, sciolse il lievito e lo donò alla madre. E il pane riuscì bello e soffice come quello dell’antica profetessa. Nella fantasia popolare si avverte l’eco del Vangelo di Matteo, che definisce il regno dei cieli simile al lievito che “una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”.

Sono numerosissime peraltro le fiabe e le leggende europee che raccontano l’acquisizione umana del lievito. Nell’immaginario mediterraneo la sostanza magica che gonfia l’impasto del pane è sempre il dono di un essere soprannaturale. Santa, ninfa, madonna o dea. In ogni caso figure femminili, depositarie di saperi utili alla sopravvivenza degli uomini, alla cura della loro salute : E al miglioramento delle loro condizioni di vita, individuale e collettiva. Questi esseri semidivini sono di fatto simboli della comunicazione sociale, della solidarietà, dell’apertura all’altro. Del resto la pasta madre è essa stessa un simbolo e un fattore di coesione. Nella comunità tradizionale era, infatti, un bene comune che passava di mano in mano per essere utilizzata a turno, proprio come accadeva per il forno del paese. E nemmeno la peggiore inimicizia avrebbe giustificato un’interruzione dello scambio della sostanza fermentante. Un’altra leggenda, che fa da sequel mitologico a quella di Maria Mocciosa, racconta che una donna povera e sola chiese un pezzo di lievito, ma le fu negato dalle sue vicine più fortunate. Le “cento signore”, le chiama testualmente la narrazione, la congedarono in malo modo dicendole di arrangiarsi e accontentarsi di mangiare pane azzimo. La sventurata andò via maledicendo l’egoismo della gente e a un certo punto si fermò per riposarsi. Si voltò indietro e vide che il paese non esisteva più. La leggenda precisa che fu distrutto da una pioggia di fuoco e di folgori.

Gli studiosi di lingue indoeuropee insistono sulla vicinanza tra i rituali della conservazione del lievito e quelli della conservazione del fuoco, e sull’aura di potenza e di sacralità che circondava le figure incaricate del loro mantenimento e accudimento. Non a caso nell’antico inglese due termini importanti come Lord e Lady derivano da parole composte come hlaf-weard, custode del pane e hlaf-dige. Che è come dire l’impastatrice per antonomasia, nostra signora della lievitazione.

Nel loro linguaggio poeticamente metaforico, il mito, la fiaba, la leggenda fanno dunque del lievito e del pane i simboli di una trasformazione necessaria, di una contaminazione vitale. Che hanno la loro origine in un furto che si trasforma in un dono. In un principio sconosciuto che arriva dall’esterno. Del resto l’introduzione del lievito nelle tecniche di panificazione euro-mediterranee è un prestito straniero che, partito dall’antico Egitto, giunge a Roma non prima del terzo secolo avanti Cristo, probabilmente ad opera di fornai macedoni.

Tutto quel che riguarda il lievito, dunque, sul piano fisico come su quello simbolico, ruota intorno al tema della potenza vitale dello scambio e del dono. Ma anche dall’alterazione positiva prodotta dal contatto con ciò che è straniero. La lievitazione è, tecnicamente, una malattia fermentante senza la quale il pane non cresce. Un prodigio e un pericolo, come ogni portentum. Che proprio a causa della sua natura inspiegabile è circondato di tabù. Tanto che nella Roma arcaica al flamen dialis, il sacerdote di Giove, era severamente vietata ogni forma di contatto con il lievito : “farinam fermento inbutam adtingere ei fas non est” (non gli è permesso di toccare farina mescolata col fermento) dice Aulo Gellio nelle Noctes acticae. Perché la contaminazione della sostanza avrebbe messo in pericolo l’immunitas di cui il flamine era garante. Solo le persone comuni potevano toccare impunemente il fermento. Come dire che la vita vera è già contaminazione. È incontaminato e incontaminabile solo il corpo sottratto alla vita. Come quello delle fate, “antiche e capricciose sorelle del destino” come le chiama Baudelaire, consegnate a un non-tempo che le fissa in un’eterna incorruttibilità “le une giovani, che erano sempre state giovani : le altre vecchie, che erano sempre state vecchie”.

Corpi estranei

“Sostanza conosciuta più per i suoi effetti che per la sua natura”. Così l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert definisce il lievito. Come un agente indefinito, che possiede la proprietà di trasformare altri corpi in qualcosa di simile a se stesso. Il che ne fa, secondo l’autore della voce, uno tra “i più grandi agenti della natura”. Il fermento sarebbe dunque un corpo estraneo che per una sorta di affinità con un’altra sostanza la trasmuta e in parte la fa sua. L’Encyclopédie sottolinea in un passaggio molto significativo la stretta correlazione che deve legare il lievito e l’impasto perché quest’ultimo possa venir modificato. Il levain è paragonato agli agenti delle malattie contagiose, a un fattore epidemico che però non colpisce chicchessia. Diciamo che l’azione del lievito dipende da una sorta di affinità elettiva che si instaura con il substrato, tra la sostanza alterante e il corpo che viene alterato. Una liaison dangereuse ma anche un’attrazione misteriosa. Una consustanzialità empatica, come quella che esiste tra due estranei che si scoprono simili. In parte proprio perché tali. Come dire che lo straniero rende straniero anche me, rivela quell’Altro che abita in fondo a noi stessi. Persio in una delle sue Satire usa proprio la metafora del lievito per parlare del fermento della conoscenza che cresce dentro di noi e come un fico selvatico abbatte i muri.

Proprio come la fermentazione introduce nella pasta del pane uno stato di effervescenza che la altera, letteralmente la rende altra, così lo straniero, come un lievito, introduce nel corpo sociale quelle trasformazioni che proprio alterandolo, lo fanno crescere. In altre parole diventa un fattore di conoscenza e di sviluppo. In un certo senso la vita sociale assomiglia proprio a una forma di lievitazione.

La diffusione della metafora della lievitazione nel nostro immaginario si spiega anche con la centralità del pane inteso come l’alimento umano per antonomasia : nutrimento, materiale e simbolico al tempo stesso. Non è un caso che nel mondo mediterraneo, e non solo, la panificazione rappresenti la soglia dell’umanità, il discrimine tra natura e cultura.

Il pane è dunque il simbolo stesso dell’umano e gli uomini si distinguono dai barbari proprio in quanto si nutrono di pane. Nell’Odissea Ulisse per descrivere la feroce inumanità di Polifemo dice che il ciclope “non somiglia a un mangiatore di pane ma a un picco selvoso isolato dagli altri monti”.

A differenza di altri animali, e soprattutto a differenza dei bruti, gli uomini cuociono il pane, usano il lievito e mettono sale sui loro cibi. E seppelliscono i morti. C’è un filo rosso che lega questi simboli vitali, al punto tale che nella legge salica il profanatore di tombe veniva paragonato a un lupo : espulso dalla communitas ed escluso dalla humanitas. E fino a quando non avesse espiato la sua colpa era vietato offrirgli del pane. E in tutta Europa durante la festa dei morti i poveri o i bambini, rappresentanti dei defunti sulla terra, ricevevano doni sotto forma di pagnotte. E pani venivano scambiati anche come dono di fidanzamento o di nozze, come gli zelten tirolesi o le fugasse veneziane. E il dio cristiano offre all’umanità il dono-perdono del suo corpo, in nome del pane e in nome del padre. Cristo, lo straniero accolto, è il pane per eccellenza. Un sermone di Pietro Crisologo lo definisce così : “seminato nella Vergine, fermentato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, donato ai fedeli come cibo celeste”. Come dire che l’umanità si connota per due caratteristiche : pietas e caritas.

Il fermento è dunque il simbolo del processo di trasformazione della natura che costituisce il fondamento della civiltà, intesa anche come formazione, educazione, trasmissione. Non a caso nelle lingue neolatine dalla parola lievito si forma anche il termine allievo. Perché l’educatore fa crescere il suo discepolo come il lievito fa crescere il pane.

Il fatto che il pane sia il risultato di una cooperazione, dunque un prodotto sociale per eccellenza, ne fa l’emblema ideale della comunità umana che ha bisogno dello scambio e della solidarietà per vivere. Dal pane derivano, infatti, parole come compagno, dal latino cum panis, per indicare la solidarietà e la reciprocità che lega coloro che si dividono il sostentamento. Compagno e compare condividono la radice pa, la stessa di padre. E non è un caso che la preghiera dei cristiani metta insieme il pane e il padre. Che offre protezione e sostentamento. Il “pane” nelle rivendicazioni sociali diventa la metafora dell’unione e della sopravvivenza dei lavoratori, che condividono il pane proprio perché non ne hanno abbastanza. Il che fa del pane una perfetta metafora della coesione collettiva : figura al tempo stesso evangelica e politica.

La differenza fatta corpo

“Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero”. In queste parole del poeta Edmond Jabès affiora l’eco profondissima della nozione di ospitalità. Da sempre legata al dono, nonché alla sua reversibilità costitutiva. La regola dell’ospitalità è quella di accogliere e onorare lo straniero, perché ciascuno di noi è a sua volta uno straniero in cerca di ospitalità. Chi è ospitato, ospiterà a sua volta. Chi ospita verrà ospitato. Ciascuno dà e riceve il dono dell’accoglienza.

Questa corrispondenza speculare fra le nozioni di “ospite” e di “straniero”, questa reciprocità profondamente impressa nell’immaginario mediterraneo, resta ancora oggi sospesa, quasi sorpresa, direi, nell’esitazione del nostro stesso vocabolario che definisce con la parola “ospite” sia chi accoglie sia chi viene accolto. Nella nozione di ospitalità è implicito un dare e un ricevere che non possono essere disgiunti l’uno dall’altro. È un dare che riceve o un ricevere che dà. Il che vuol dire che siamo di fronte a figure inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. Basti pensare alla parentela linguistica, religiosa e sociale che nel mondo greco e latino mette in parole il nodo problematico relativo dell’accoglienza dell’altro e che, al tempo stesso, dice la necessità di tale accoglienza. Il fatto che in latino una stessa parola, hostis, definisse lo straniero e il nemico, ma anche l’ospite, riflette immediatamente l’indeterminazione del rapporto con l’altro, nella sua oscillazione costitutiva tra un estremo ospitale e un estremo ostile. Solo in seguito, infatti, compare la parola hospes per designare l’ospite, inteso come il forestiero che domanda ospitalità. E il greco xenos che definisce lo straniero, in origine significa soprattutto l’ospite. Tanto che nel mondo greco la xenía è il patto che lega lo straniero-ospite all’autoctono-ospitante, al nativo : in una parola, al padrone di casa. In virtù di questo patto l’autoctono diventa garante del forestiero nei confronti dell’intera comunità accogliente. Un patto costitutivamente reversibile in cui le parti dell’identico e del diverso, dell’io e dell’altro, sono fatte proprio per essere scambiate. Accogliere per essere accolti, dare per ricevere ospitalità non sono dunque due azioni diverse, ma sono due tempi e due modi di una stessa azione.

Nelle lingue indoeuropee dare e anche donare si formano su una stessa radice, do. Nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Émile Benveniste mostra la problematicità pluriversale di una nozione apparentemente piana e unidirezionale come il dare, quando rileva che do nell’antico ittita e nell’indoiranico da significa prendere. Anziché chiedersi se è nato prima il senso di dare o quello di prendere bisogna affrontare la questione endiadicamente. Da non significa solo dare o solo prendere considerati separatamente, ma l’uno e l’altro a seconda della costruzione (o della relazione sociale). Come l’inglese take che può essere from o to.

Allo stesso modo do indicava solo il fatto di afferrare. È la sintassi dell’enunciato a determinare se è afferrare per tenere o afferrare per offrire. Un’ambivalenza semantica che affiora anche nel comprare e vendere in lingue come il tedesco (kaufen/verkaufen). Dare e prendere sono dunque nozioni organicamente legate dalla loro polarità. Si pensi al cortocircuito creato dall’espressione “dare un ricevimento”.

Per tornare a hostis, inteso come ospite cui si fa un dono, basti pensare a un altro termine come hostia che non è una vittima e basta, ma solo quella destinata a compensare la collera degli dèi. A pareggiare un conto, a ristabilire una reciprocità violata. Del resto nel latino arcaico hostire significava proprio pareggiare le spighe di grano, farle tutte eguali. Hostorium era lo strumento per pareggiare lo staio e Hostilina era la dea preposta al pareggio tra raccolto e lavoro. Hostilitas indica allora una forma di reciprocità che può essere positiva o negativa. Hostis è chi compensa e gode di compenso, chi ottiene a Roma dei vantaggi e ne deve l’equivalente a colui che egli ripaga con la reciprocità. E la parità di trattamento dell’hostis era legata alla sua condizione di ospite di un cittadino romano.

Ostilità, ospitalità, xenofobia, dare, ricevere, accogliere, respingere, le parole che noi adoperiamo ancora oggi per parlare della relazione tra noi e gli altri, tra il famigliare e l’estraneo, derivano dunque tutte da uno stesso nucleo di significati che ruotano intorno alla necessità del dono dell’accoglienza. E della problematicità di ogni rapporto con l’altro. Rapporto che è tuttavia indispensabile, ai singoli e alle collettività. Perché solo l’altro consente di disegnare il profilo della nostra identità sullo sfondo oscuro della sua differenza. Come un negativo fotografico, lo straniero, proprio perché è ciò che io non sono, mi rivela a me stesso per quello che sono. Proprio in quanto entrambi siamo letteralmente costituiti da quella differenza, da quel between che ci separa e ci unisce. In questo senso si può dire che l’alterità è parte della trama dell’identità, è uno dei suoi fili di diverso colore. A dispetto di ogni mitologia identitaria, di ogni ideologia della purezza, di ogni passione dell’origine, dunque, l’altro ci abita da sempre.

I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l’altro, ricco di possibilità, ma anche di insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.

Il mito greco - che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al presente remoto - designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l’arrivo degli dèi stranieri. Primo fra tutti Dioniso - simbolo della mobilità e del fermento vitale - il nume che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine.

Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne, il termine epidemia in origine non appartiene al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e viene impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Come quella di Dioniso che irrompe nella polis come un ospite non invitato, portato dalle onde su un’imbarcazione di fortuna. Oggi diremmo una carretta del mare.

I rituali epidemici, consistono spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca viene inizialmente ricacciata indietro. Il rito si carica dunque di un profondo significato politico e sociale. Drammatizza sogni e incubi del cittadino greco, poiché rappresenta il pericolo e al tempo stesso la necessità dell’ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.

E se lo sbarco di Dioniso è un’epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dell’amore e della fusione fra i corpi, è addirittura Pandemia. Un nome che ha in sé tutta l’insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un’ambiguità chiaramente fotografata nelle nostre lingue che usano ancora parole come patologia venerea, maladie vénérienne, venus sickness, enfermedad venerea, venus krankheit per definire certe conseguenze dell’amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentano nel linguaggio dei simboli la forza vitale dello scambio, della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale. È sorprendente come il mito riesca a farci interpretare e capire il nostro presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell’essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.

In realtà l’ambivalenza del rapporto con lo straniero appare l’emblema stesso di quella contaminazione che è la cifra costitutiva di questo tempo. In un mondo globalizzato come il nostro, caratterizzato da un contatto sempre più ravvicinato di tutti con tutti, da un’incessante migrazione di uomini e cose, da un’interconnessione planetaria, si sviluppa, anche come anticorpo immaginario, una crescente paura dell’estraneo, di tutto ciò che viene da lontano, di tutto quanto temiamo di non riconoscere e di non riuscire a controllare. Non è senza ragione se la Mishnah ebraica definisce la pasta lievitante come “quella che ha un aspetto pallidissimo come di una persona cui si rizzano i capelli dalla paura”.

E in questo senso la paura dilagante dell’infezione che viene dall’esterno riflette la grande, insanabile, contraddizione di una civiltà come la nostra, che per poter funzionare a pieno regime rende endemico quello stesso male da cui tenta disperatamente di rendersi immune. Noi oggi oscilliamo continuamente fra la perdita progressiva di communitas e la ricerca ossessiva di immunitas. Perciò abbiamo paura. Perché il vero pericolo non è l’altro ma è la nostra solitudine.

Se il contagio dell’altro è, infatti, la ragione del nostro malessere, il contatto con l’altro è, al contrario, la ragione del nostro benessere. Inseparabili come due gemelli siamesi, contatto e contagio, circolazione e infezione sono le due anime del sistema mondo.

Forse non è un caso che un canto della crisi della modernità, del suo carattere aridamente utilitaristico, come la Waste Land di T. S. Eliot abbia una sorta di estuario catartico nella reiterazione finale della sillaba da che viene ripetuta più volte, come un mantra. Questi versi rimandano alla parabola del tuono contenuta nella Brihadaranyaka-Upanishad - ed alle parole datta e dayadhvam, (“dai”, “comprendi”), che ne riassumono il senso. Ma il da è soprattutto la parola originaria, elementare, che esprime il carattere indiviso e indivisibile del do ut des, la reciprocità vitale del dono. Che restituisce a me come all’altro la metà perduta dell’essere.

NOTES